Le recensioni de I Fetenti

A proposito de “I FETENTI” di Raffaele Abbate di Adelaide-Martino-Cantafio

Non si può riassumere in poco spazio la variegata gamma di sensazioni che la lettura di quest’opera ha suscitato in me.

Ognuno, per capire, dovrebbe avere l’opportunità di leggerla, gustarla e degustarla personalmente, a piccole dosi , per fare suo l’universo particolare che la contestualizza, perché i contorni che ne avvolgono le varie storie, e queste stesse, oscillano, di continuo, tra il soggettivo e l’oggettivo, tra la creazione fantasiosa (nell’accezione di estro artistico) e l’informazione tratta da un esterno che è quotidiano, reale, storico.

Il risultato è l’assenza assoluta di ambiguità tra l’immaginario e il reale, proprio per questa sintesi di invenzione e storia, di pensiero e immagine, che si trasfigura in una realtà profonda, quella che emerge dall’abisso della coscienza, laddove la lotta che ciascuno di noi affronta in momenti particolari del suo vivere, ci mette a confronto con la parte di noi che abbiamo voluto, che vogliamo nascondere o, almeno, contenere.

E’ da questo abisso che sale il nostro vero volto col quale, finalmente, possiamo giungere all’indipendenza, alla liberazione da tutte le sopraffazioni subite lungo il corso della nostra esistenza.

Quella di Raffaele Abbate è, infatti, una visione razionale del mondo, di alcuni aspetti particolari di esso, in cui ogni protagonista si muove, un mondo che l’Autore testimonia di aver saputo penetrare e in cui ha riconosciuto e riconosce, nei vari soggetti, un’identità vera che, in fondo, appartiene anche a noi, al di là del microcosmo entro cui operiamo, ben oltre le mistificazioni sociali, intellettuali, politiche, materiali che ci accompagnano.

Il Nostro, creando un’atmosfera precisa, con particolari che coniugano perfettamente estrazioni sociali, oppsizioni ideologiche, conflitti interiori, giunge a materializzare l’anima di chi subisce e a infonderle quella carica energetica, dura, violenta, cruenta, che porterà il personaggio ad assurgere al ruolo di “doppio” dell’eroe, nel momento in cui lo rende parte attiva in una lotta il cui epilogo viene a coincidere con la liberazione dello stesso dalla violenza, dalla prepotenza altrui, sia questi un singolo individuo, un oppressore, un gruppo, una fazione.

Blasfemità, pertanto, da parte mia, affermare che l’essenza di un’antologia narrativa di tale portata, si rivela come immagine simbolica del cammino di Abele che muove i passi contro Caino, ben consapevole di rimanere sospeso in eterno, tra salvezza e dannazione?

Caratteristica non comune è, poi, l’accuratezza linguistica con cui mescola la lingua italiana, attraverso un abile lavoro di ripensamento, con espressioni in lingua napoletana che hanno il suono di uno schiocco di frusta e che fanno della scrittura un vero strumento espressionistico, fortemente comunicativo nel veicolare fortissime emozioni.

Già… prezioso rivisitatore di calembour all’incontrario, questo Scrittore, o, meglio, abilissimo rivisitatore di quell’inaspettato fulmen in clausula che solitamente, a partire dallo scrittore dell’età imperiale romana, Marziale, si identifica con il momento culmine di una trovata ingegnosa, scherzosa e brillante, ma che nelle pagine di Raffaele Abbate, diventa in cauda venenum,per quella stoccata finale che lascia interdetti e che, da una macabra scoperta, fa affiorare perfino un sorriso di compiacimento sulle labbra del lettore.

Recensioni dal Sito di Marotta editore 

Raffaele Abbate, quasi avvocato, ex dirigente dell’Inps, confessa di essere dimagrito venti chili. Questo ha segnato una svolta nella sua vita tanto da trasformarlo in scrittore. Ne viene fuori questo libro che inaugura i “Nerodavorio” della Collana Fuori e annuncia quella che in parte sarà la filosofia che la percorrerà.

Un dirigente d’azienda irpino napoletano sa che non può fidarsi di nessuno, e da ciò nasce un’attenzione ai personaggi e ai luoghi che hanno attraversato la sua vita. In una muta conversazione con sé stesso Don Raffe’, figlio della filosofia partenopea, si riaggancia magicamente a Giuseppe Marotta, per quei pezzi di colore, quel brio, irresistibile e straordinario con il quale riesce ad intrattenere il lettore. C’è una strana nostalgia del passato, una vera napoletanità, in quel certo modo di narrare nel dettaglio, e allo stesso tempo un’indignazione che rasenta il sarcasmo. Una vera e propria insofferenza verso una certa “morale” che vuole gli esseri umani tutto, tranne che malfattori.

“I Fetenti” danno vita ad un libro insolito, dove l’autore avanza indossando la maschera dello humour più nero, quasi pulp, per raccontarci che in fondo anche sulle peggiori malefatte si può ridere. Di un riso amaro, certo. Il “sangue fa buon riso” sembra ripeterci Abbate.

Il lettore precipiterà in atmosfere locali, anche se non tutti i racconti sono ambientati in zona campana, nonostante ciò, sarebbe consigliabile pensare per tutto il libro con accento napoletano.

Mariuoli, delinquenti, terroristi, assassini, cannibali e stupratori, una tremenda carrellata delle peggiori nefandezze che l’umanità riesce a proporre. Risate sorde, per esorcizzare l’altro lato dell’uomo, quello che ci terrorizza e che neanche la cultura e la civilizzazione sono riuscite a cancellare, anzi hanno reso più sofisticate e crudeli.

2 frammenti di racconti

La galleria del pozzo del diavolo.

Il convoglio sferraglia lentamente sulla lunga salita che porta alla stazione di Vitulano. La locomotiva ansima, tira a stento sei pesanti vagoni merci, una carrozza viaggiatori, una carrozza bagagliaio, in coda un carro aperto a pianale con una pattuglia di soldati ed una mitragliatrice. Il tender è semivuoto, solo un piccolo mucchio di carbone. Nicola Marello il macchinista sa che deve economizzare il poco carbone che gli resta, deve riuscire ad arrivare alla stazione di Benevento per fare rifornimento, se ve n’è ancora di carbone salvato dai bombardamenti notturni della RAF e degli americani. Dietro di lui l’Hauptmann delle SS Dieter Nuerberg minaccioso gli blatera d’andare più veloce, ma Nicola non si scompone: “Capitano, se vogliamo arrivare a Benevento questa è l’andatura e la velocità. Il mitra e la pistola sono arte tua…ma la macchina è cosa mia…e poi l’acqua è quasi finita… Ci dobbiamo fermare a Vitulano”.

Sangue, acqua e champagne.

E’ la sera del 3 novembre 1966, gli ultimi ospiti escono dall’ampio portone del cinquecentesco palazzo Neostos in Borgo dei Greci a Firenze. Il cavaliere Matteo Della Gherardesca, buon ospite, attende sotto l’arcata del portone che gli ospiti si allontanino.

Scende giù una gelida pioggia torrenziale.

La strada stretta è ingombra di auto, gli autisti non vogliono far inzuppare i lussuosi abiti dei loro padroni e aspettano con gli sportelli aperti.

Una lunga fila di persone in abito da sera, sotto ampi ombrelli retti da camerieri in giacca a righe rosse, cerca di risalire la strada verso piazza Santa Croce.

La pioggia battente, lo scivoloso selciato, l’angusto spazio rendono difficile il cammino e più d’una dama in abito lungo scivola e, non sorretta dal proprio marchese, piomba nelle fangose e oleose pozzanghere sul bordo della strada.

E’ la degna conclusione del ricevimento.

Dalla stampa 

lamette

roma

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